Riceviamo da Benito Mazzi il testo del suo intervento su Maestre allo sbaraglio durante la presentazione che si è tenuta venerdì 18 luglio a Santa Maria Maggiore (VB).
Un grazie da parte di tutte le Maestre allo sbaraglio.
Ringrazio Anna Bossi per avermi invitato a parlare del mio
libro, ma è Maestre allo sbaraglio l’oggetto di questo incontro.
Confermando quanto è stato detto finora, non posso che elogiare Anna e le sue
collaboratrici per questa realizzazione, opportuna e completa, nella quale
le maestre raccontando se stesse
descrivono l’evoluzione del tessuto sociale
del territorio nel quale si sono trovate a operare nel corso di
settant’anni. La figura della maestra non è mai stata adeguatamente
sottolineata. Mi stupivo che in Italia non esistesse un monumento alla maestra.
Sapevo che in un paese della val Brembana c’è un monumento a una maestra
particolarmente meritevole deceduta a soli 51 anni, ma si tratta di un
monumento a una persona, non alla maestra – istituzione.
Ho dovuto piacevolmente ricredermi: a Reggio Emilia
lo scorso 29 maggio il Comune ha deliberato di erigere, per conto della Dante
Alighieri, un monumento, opera del noto scultore Alessandro
Romano, alle “maestrine” che dopo l’unità d’Italia diffusero la lingua italiana
in tutto il Paese. Non mi è però dato sapere se l’encomiabile progetto sia
andato in porto.
<< Simile monumento – si legge nella
motivazione all’iniziativa –costituirà un importante riconoscimento, unico in
Italia, a una figura che dalla seconda metà del diciannovesimo secolo ha
contribuito in modo determinante alla realizzazione dell’unità nazionale. Dopo
il 1861, infatti, e per molti decenni, veri e propri “plotoni” di giovani
maestre armate di grande coraggio, passione, pazienza ed energia portarono
nelle più sperdute località, attraverso l’insegnamento di una lingua che
superava i dialetti locali, la consapevolezza dell’unità nazionale >>.
Parole sacrosante. Vorrei aggiungere che nella zone
di montagna come la nostra la maestra era per i bambini, oltre che
l’insegnante, una seconda mamma.
Per comprendere meglio il concetto è opportuno
conoscere qual era nelle nostre vallate la situazione della donna.
<< Il supplizio, a cui vanno soggette le
nostre donne di montagna nel coltivare gli sterili campetti e nell’allevare il
bestiame, è superiore a ogni immaginazione>> scrive lo storico Renzo
Mortarotti.<< In paese devono lavorare la campagna e attendere alla
fienagione; sugli alpeggi devono custodire il bestiame e falciare l’erba
selvatica nei boschi e tra i dirupi per mantenere una mucca in più d’inverno.
Nelle veglie invernali poi, al caldo delle stalle o delle stufe, filano fino a
mezzanotte >>.
Le donne erano poi utilizzate come “animali da soma”
per i trasporti più pesanti: legna, fieno, strame, letame, carbone, carrucole
di teleferica e altro. << Asini e buoi non sopporterebbero ugualmente i
loro sforzi >> scrive il maestro elementare vigezzino Andrea Testore,
grande innovatore sociale, deputato al parlamento della provincia di Novara.
Era pertanto molto arduo, se non impossibile, per
queste povere donne trovare il tempo da dedicare all’educazione e alla cura dei
figli i quali dovevano crescere com’erano cresciute loro, “senza tante
storie” o “inutili perdite di tempo con
libri e quaderni”, evitando di porsi troppe domande, ubbidendo ciecamente ai
genitori e parlando il meno possibile.
Da qui la straordinaria importanza che assumeva la
maestra (più rari erano i maestri), che si trovava a essere, oltre che
l’educatrice, la consigliera dei suoi
alunni, dei quali carpiva tutti i segreti e ai quali finiva per affezionarsi
profondamente, spartendone le pene e le gioie piccole e grosse di ogni giorno.
Non esisteva comunicazione tra genitori e figli, meno che meno confidenza, al
padre e alla madre nella maggior parte dei casi si dava del “voi”. I piccoli
dovevano tenersi tutto dentro, gli unici confidenti erano i compagni e la
maestra.
<< Quando in casa mia scoppiava il finimondo
prendevo la porta e andavo a bussare dalla mia maestra >> scrive in un
diario rinvenuto dopo la sua morte in un cassonetto della spazzatura un anonimo
valligiano.<< Mio padre, artigiano, qualcosa guadagnava, ma aveva l’amica
e i suoi soldi finivano là, mentre noi avevamo le pezze nel didietro. Mia madre
per consolarsi beveva. Quando lui tornava a casa si scatenavano liti furibonde
che finivano a schiaffi e pugni. Ogni sera. Non terminavo neppure di mangiare,
scappavo piangendo e pregavo il Signore che facesse morire mio padre.
Attraversando il paese vedevo le luci accese nelle case. In alcune la gente
parlava e rideva intorno al fuoco. Erano più poveri di noi ma felici, li
invidiavo. La maestra mi teneva accanto a sé, mi accarezzava e mi dava i
biscotti di mais. Una volta l’ho vista piangere. Piangeva per me, per la mia situazione,
l’ho capito da come mi guardava e mi stringeva a sé >>.
Per chi la famiglia non l’aveva più, per quegli
scolari dei preventori della Croce Rossa che avevano perduto i genitori in
guerra, sotto i bombardamenti o le alluvioni, o non li avevano mai conosciuti,
la maestra era la fiammella alla quale cercavano disperatamente di riscaldarsi.
<<Usavo un grembiule verde allacciato davanti, un giorno lo trovai senza
bottoni >> scrive nei suoi ricordi la professoressa Apollonia Sommaria di
Domodossola, nel 1946 maestrina presso la Colonia montana di Druogno.<<
Alcune bambine li avevano strappati tutti e ciascuna si teneva in tasca il suo,
per avere qualche cosa della maestra, per avere la sensazione della sua
presenza, anche quando non c’era >>.
Concludo con un pensiero della professoressa di
Liceo Pinuccia Catenazzi per tanti anni maestra di montagna e di lago:<<
Chi insegna non solo trasmette il suo sapere, ma anche profonde nell’atto parte
di se stesso, parte della propria vita, della propria anima. Passeranno gli
anni, le vicende muteranno, nomi e volti sfumeranno, ma insegnante e allievi
saranno per sempre, anche se inconsapevolmente, l’uno nella vita
dell’altro>>.
Ben venga, dunque, il monumento alla maestra!
Benito
Mazzi