martedì 25 aprile 2017

"Ferro" di Primo Levi

Primo Levi e Sandro Delmastro

Attraverso la foschia, e nel silenzio affaccendato del laboratorio, si udì una voce piemontese che diceva: “Nuntio vobis gaudium magnum. Habemus ferrum”. Era il marzo 1939, e da pochi giorni, con quasi identico solenne annuncio (“Habemus Papam”) si era sciolto il conclave che aveva innalzato al Soglio di Pietro il Cardinale Eugenio Pacelli, in cui molti speravano, poiché in qualcosa o qualcuno bisogna pure sperare. Chi aveva pronunciato il sacrilegio era Sandro, il taciturno. In mezzo a noi, Sandro era un isolato. Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappotto. Veniva a lezione con logori calzoni di velluto alla zuava, calzettoni di lana greggia, e talvolta una mantellina nera che mi faceva pensare a Renato Fucini. Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole, la fronte bassa sotto la linea dei capelli, che portava cortissimi e tagliati a spazzola: camminava col passo lungo e lento del contadino.
Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch’io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch’io me ne allontanavo: ogni sguardo scambiato fra me e loro era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto. Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te? Lo stesso di sei mesi addietro, un tuo pari che non va a messa, o il giudeo che “di voi tra voi non rida?".
Avevo osservato, con stupore e gioia, che tra Sandro e me qualcosa stava nascendo. Non era affatto l’amicizia fra due affini: al contrario, la diversità delle origini ci rendeva ricchi di “merci” da scambiare, come due mercanti che si incontrino provenendo da contrade remote e mutuamente sconosciute. Non era neppure la normale, portentosa confidenza dei vent’anni: a questa, con Sandro, non giunsi mai. Mi accorsi presto che era generoso, sottile, tenace e coraggioso, perfino con una punta di spavalderia, ma possedeva una qualità elusiva e selvatica per cui, benché fossimo nell’età in cui si ha il bisogno, l’istinto e l’impudicizia di infliggersi a vicenda tutto quanto brulica nella testa ed altrove (ed è un’età che può durare anche a lungo, ma termina col primo compromesso), niente era trapelato fuori del suo involucro di ritegno, niente del suo mondo interiore, che pure si sentiva folto e fertile, se non qualche rara allusione drammaticamente tronca. Era fatto come i gatti, con cui si convive per decenni senza che mai vi consentano di penetrare la loro sacra pelle. Avevamo molto da cederci a vicenda. Gli dissi che eravamo come un catione e un anione, ma Sandro non mostrò di recepire la similitudine. Era nato sulla Serra d’Ivrea, terra bella ed avara: era figlio di un muratore, e passava le estati a fare il pastore. Non il pastore d’anime: il pastore di pecore, e non per retorica arcadica né per stramberia, ma con felicità, per amore della terra e dell’erba, e per abbondanza di cuore. Aveva un curioso talento mimico, e quando parlava di mucche, di galline, di pecore e di cani, si trasfigurava, ne imitava lo sguardo, le movenze e le voci, diventava allegro e sembrava imbestiarsi come uno stregone. Mi insegnava di piante e di bestie, ma della sua famiglia parlava poco. Il padre era morto quando lui era bambino, erano gente semplice e povera, e poiché il ragazzo era sveglio, avevano deciso di farlo studiare perché portasse soldi a casa: lui aveva accettato con serietà piemontese, ma senza entusiasmo. Aveva percorso il lungo itinerario del ginnasio-liceo tirando al massimo risultato col minimo sforzo: non gli importava di Catullo e di Cartesio, gli importava la promozione, e la domenica sugli sci o su roccia. Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio: era un mestiere di cose che si vedono e si toccano, un guadagnapane meno faticoso che fare il falegname o il contadino. Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! Che, se cercava il ponte, l’anello mancante, fra il mondo delle carte e il mondo delle cose, non lo doveva cercare lontano: era lì, nell’Autenrieth, in quei nostri laboratori fumosi, e nel nostro futuro mestiere. E infine, e fondamentalmente: lui, ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? Non provava ribrezzo per tutti i dogmi, per tutte le affermazioni non dimostrate, per tutti gli imperativi? Lo provava: ed allora, come poteva non sentire nel nostro studio una dignità e una maestà nuove, come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali? Sandro mi ascoltava, con attenzione ironica, sempre pronto a smontarmi con due parole garbate e asciutte quando sconfinavo nella retorica: ma qualcosa maturava in lui (non certo solo per merito mio: erano mesi pieni di eventi fatali), qualcosa che lo turbava perché era insieme nuovo ed antico. Lui, che fino ad allora non aveva letto che Salgari, London e Kipling, divenne di colpo un lettore furioso: digeriva e ricordava tutto, e tutto in lui si ordinava spontaneamente in un sistema di vita; insieme, incominciò a studiare, e la sua media balzò dal 21 al 29. Nello stesso tempo, per inconscia gratitudine, e forse anche per desiderio di rivalsa, prese a sua volta ad occuparsi della mia educazione, e mi fece intendere che era mancante. Potevo anche aver ragione: poteva essere la Materia la nostra maestra, e magari anche, in mancanza di meglio, la nostra scuola politica; ma lui aveva un’altra materia a cui condurmi, un’altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l’autentica Urtstoff senza tempo, la pietra e il ghiaccio delle montagne vicine. Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guadare un torrente? Conoscevo la tormenta in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi.
Nacque un sodalizio, ed incominciò per me una stagione frenetica. Sandro sembrava fatto di ferro, ed era legato al ferro da una parentela antica: i padri dei suoi padri, mi raccontò, erano stati calderai (“magnìn”) e fabbri (“fré”) delle valli canavesane, fabbricavano chiodi sulla sforgia a carbone, cerchiavano le ruote dei carri col cerchione rovente, battevano la lastra fino a che diventavano sordi: e lui stesso, quando ravvisava nella roccia la vena rossa del ferro, gli pareva di ritrovare un amico. D’inverno, quando gli attaccava secco, legava gli sci alla bicicletta rugginosa, partiva di buonora, e pedalava fino alla neve, senza soldi, con un carciofo in tasca e l’altra piena d’insalata: tornava poi a sera, o anche il giorno dopo, dormendo nei fienili, e più tormenta e fame aveva patito, più era contento e meglio stava di salute.
D’estate, quando partiva da solo, sovente si portava dietro il cane, che gli tenesse compagnia. Era un bastardetto giallo dall’aspetto umiliato: infatti, come Sandro mi aveva raccontato, mimando alla sua maniera l’episodio animalesco, aveva avuto da cucciolo un infortunio con una gatta. Si era avvicinato troppo alla figliata dei gattini appena nati, la gatta si era impermalita, aveva cominciato a soffiare e si era gonfiata tutta: ma il cucciolo non aveva ancora imparato il significato di questi segnali, ed era rimasto lì come uno sciocco. La gatta lo aveva aggredito, inseguito, raggiunto e graffiato sul naso: il cane ne aveva riportato un trauma permanente. Si sentiva disonorato, e allora Sandro gli aveva costruito una pallottola di pezza, gli aveva spiegato che era un gatto, ed ogni mattino glielo presentava perché si vendicasse su di esso dell’affronto e restaurasse il suo onore canino. Per lo stesso motivo terapeutico Sandro lo portava in montagna, perché si svagasse: lo legava a un capo della corda, legava se stesso all’altro, metteva il cane bene accucciato su di un terrazzino, e poi saliva; quando la corda era finita, lo tirava su gentilmente, e il cane aveva imparato, e camminava a muso in su con le quattro zampe contro la parete quasi verticale, uggiolando sottovoce come se sognasse. Sandro andava su roccia più d’istinto che con tecnica, fidando nella forza delle mani, e salutando ironico, nell’appiglio a cui si afferrava, il silicio, il calcio e il magnesio che aveva imparati a riconoscere al corso di mineralogia. Gli pareva di aver perso giornata se non aveva dato fondo in qualche modo alle sue riserve di energia, ed allora era anche più vivace il suo sguardo: e mi spiegò che, facendo vita sedentaria, si forma un deposito di grasso dietro agli occhi, che non è sano; faticando, il grasso si consuma, gli occhi arretrano in fondo alle occhiaie, e diventano più acuti.
Delle sue imprese parlava con estrema avarizia. Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare (come me): non amava le parole grosse, anzi, le parole. Sembrava che anche a parlare, come ad arrampicare, nessuno gli avesse insegnato; parlava come nessuno parla, diceva solo il nocciolo delle cose. Portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, come ho detto, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del Cai, tutta sbertucciata, e sempre una matassa di filo di ferro per le riparazioni d’emergenza. La guida, poi, non la portava perché ci credesse: anzi, per la ragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo; non solo, ma come una creatura bastarda, un ibrido detestabile di neve e roccia con carta. La portava in montagna per vilipenderla, felice se poteva coglierla in difetto, magari a spese sue e dei compagni di salita. Poteva camminare due giorni senza mangiare, o mangiare insieme tre pasti e poi partire. Per lui, tutte le stagioni erano buone. D’inverno a sciare, ma non nelle stazioni attrezzate e mondane, che lui fuggiva con scherno laconico: troppo poveri per comperarci le pelli di foca per le salite, mi aveva mostrato come ci si cuciono i teli di canapa ruvida, strumenti spartani che assorbono l’acqua e poi gelano come merluzzi, e in discesa bisogna legarseli intorno alla vita. Mi trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni traccia umana, seguendo itinerari che sembrava intuire come un selvaggio. D’estate, di rifugio in rifugio, ad ubriacarci di sole, di fatica e di vento, ed a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d’uomo: ma non sulle cime famose, né alla ricerca dell’impresa memorabile; di questo non gli importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino.
Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica. Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove. Del resto, non sempre occorreva andare alto e lontano. Nelle mezze stagioni il regno di Sandro erano le palestre di roccia. Ce ne sono diverse, a due o tre ore di bicicletta da Torino, e sarei curioso di sapere se sono tuttora frequentate: i Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Roca Patanüa (significa Roccia Nuda), il Plô, lo Sbarüa, ed altri, dai nomi casalinghi e modesti. Quest’ultimo, lo Sbarüa, mi pare fosse stato scoperto da Sandro stesso, o da un suo mitico fratello, che Sandro non mi fece mai vedere, ma che, dai suoi scarsi accenni, doveva stare a lui come lui stava alla generalità dei mortali. Sbarüa è deverbio da “sbarüé”, che significa “spaurare”; lo Sbarüa è un prisma di granito che sporge di un centinaio di metri da una modesta collina irta di rovi e di bosco ceduo: come il Veglio di Creta, è spaccato dalla base alla cima da una fenditura che si fa salendo via via più stretta, fino a costringere lo scalatore ad uscire in parete, dove, appunto, si spaura, e dove esisteva allora un singolo chiodo, lasciato caritatevolmente dal fratello di Sandro. Erano quelli curiosi luoghi, frequentati da poche decine di affezionati del nostro stampo, che Sandro conosceva tutti di nome o di vista: si saliva, non senza problemi tecnici, in mezzo ad un noioso ronzio di mosche bovine attirate dal nostro sudore, arrampicandosi per pareti di buona pietra salda interrotte da ripiani erbosi dove crescevano felci e fragole, o in autunno more; non di rado, si sfruttavano come appigli i tronchi di alberelli stenti, radicati nelle fenditure: e si arrivava dopo qualche ora alla cima, che non era una cima affatto, ma per lo più un placido pascolo, dove le vacche ci guardavano con occhi indifferenti. Si scendeva poi a rompicollo, in pochi minuti, per sentieri cosparsi di sterco vaccino antico e recente, a recuperare le biciclette. Altre volte erano imprese più impegnative: mai tranquille evasioni, poiché Sandro diceva che, per vedere i panorami, avremmo avuto tempo a quarant’anni. “Dôma, neh?” mi disse un giorno, a febbraio: nel suo linguaggio, voleva dire che, essendo buono il tempo, avremmo potuto partire alla sera per l’ascensione invernale del Dente di M’, che da qualche settimana era in programma. Dormimmo in una locanda e partimmo il giorno dopo, non troppo presto, ad un’ora imprecisata (Sandro non amava gli orologi: ne sentiva il tacito continuo ammonimento come un’intrusione arbitraria); ci cacciammo baldanzosamente nella nebbia, e ne uscimmo verso la una, in uno splendido sole, e sul crestone di una cima che non era quella buona. Allora io dissi che avremmo potuto ridiscendere di un centinaio di metri, traversare a mezza costa e risalire per il costone successivo: o meglio ancora, già che c’eravamo, continuare a salire ed accontentarci della cima sbagliata, che tanto era solo quaranta metri più bassa dell’altra; ma Sandro, con splendida malafede, disse in poche sillabe dense che stava bene per la mia ultima proposta, ma che poi, “per la facile cresta nord-ovest” (era questa una sarcastica citazione dalla già nominata guida del Cai) avremmo raggiunto ugualmente, in mezz’ora, il Dente di M’; e che non valeva la pena di avere vent’anni se non ci si permetteva il lusso di sbagliare strada. La facile cresta doveva bene essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda ad un’ilarità sinistra che io trovavo irritante.
- E per scendere?
- Per scendere vedremo, - rispose; ed aggiunse misteriosamente: - Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso -. Bene, la gustammo, la carne dell’orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora: il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale. Ci eravamo tolte le scarpe, come descritto nei libri di Lammer cari a Sandro, e tenevamo i piedi nei sacchi; alla prima luce funerea, che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline.
Ma tornammo a valle coi nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.
Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi.
Non hanno servito a lui, o non a lungo. Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura.
Oggi so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie. Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto.

Da "Il sistema periodico".
                                                                                            Francesca

lunedì 24 aprile 2017

Festa della Liberazione

XXV APRILE: fine del secondo conflitto mondiale e LIBERAZIONE dalla dittatura fascista.


RODARI: per spiegare la pace e la guerra ai bambini … e forse anche ai grandi.





PROMEMORIA (GIANNI RODARI)
Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte
né per mare né per terra:
per esempio, LA GUERRA

DOPO LA PIOGGIA (GIANNI RODARI)
Dopo la pioggia viene il sereno
brilla in cielo l’arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
E’ bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede – questo è il male –
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente ?
Un arcobaleno senza tempesta
questa sì che sarebbe festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra.


                                                                                       


                                                                                                              Anna B.

sabato 8 aprile 2017

Festa per il Premio di Qualità della Microeditoria

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato e hanno contribuito alla realizzazione della festa.
Nei dieci post successivi pubblichiamo nella loro interezza i lavori che ci sono pervenuti e da cui sono stati letti alcuni stralci durante la festa.




Locandina.

Articolo su "L'Eco Di Galliate".
Clicca sulla foto per scaricarla e ingrandirla.


Susi Soncin ha letto il biglietto che la sua maestra le aveva scritto: lo conserva ancora gelosamente e con affetto poiché le parole di incoraggiamento l'hanno aiutata nella sua crescita. Ha desiderato condividere queste parole e l'emozione con i presenti.



Torta e attestato del premio



Con la Dirigente Alida Colombano: genitori, insegnanti, educatori.




Un pubblico interessato




Le maestre con l'editrice Dott.ssa Perotti di Astragalo.


Libere riflessioni sulla scuola e sulla responsabilità universale / Tempi che cambiano (e strani accadimenti)

Sono una millenial per definizione. Ho compiuto diciotto anni nel 2000. Della scuola ho parecchi ricordi ed i migliori sono decisamente quelli della scuola elementare. Ho frequentato la scuola pubblica a Galliate, la città dove ancora oggi vivo, in un contesto scolastico che si è dimostrato favorevole sia alla mia crescita individuale che a quella collettiva della nostra classe.

Ho terminato il mio percorso di studi con il conseguimento di un diploma accademico in Belle Arti. Oggi ho trentaquattro anni e sono la mamma di Bianca, una bimba curiosa e estroversa di due anni e mezzo.

Di recente mi sono trovata a riflettere in merito alle parole del Dalai Lama sulla “responsabilità universale” e ho compreso che il nostro presente storico può ritenersi una nuova era contraddistinta dalla nascita di una comunità universale e che, volenti o nolenti, tutti i membri dell'umanità, nonostante le varie diversità e unicità linguistiche e culturali, dovranno presto imparare a convivere nel rispetto degli altri.

Quando andavo a scuola da piccola abbiamo spesso discusso in classe di tematiche quali la solidarietà fra i popoli, l'integrazione, l'accoglienza, la coesione fra persone di diverse etnie e religioni, formando il nostro pensiero a riguardo.


Il presente, però, continua a porci nuovi interrogativi che nascono dalla “pratica” e non più solo dalla “teoria”. La storia che viviamo nel quotidiano ci sta facendo fare i conti con nuove realtà e nuovi disegni geopolitici ai quali partecipiamo non più in qualità di spettatori passivi ma come fautori di questo nuovo capitolo storico. E alcune di queste tematiche, che solo un ventennio fa potevano sembrare astruse e lontane, si presentano con forza dirompente.

La società si presenta come mai prima d'ora variegata, stratificata, piena di diversità e contraddizioni, ma non per questo priva di realtà di integrazione fra i diversi individui che la compongono. I valori possono e devono fungere da “collante”.

Gli uomini di oggi sono viaggiatori. Fanno nuove esperienze, si trasferiscono per lavoro o per migliorare la qualità della loro vita ed entrano maggiormente in contatto diretto con realtà che non sempre conoscono a pieno. Essi, però, hanno dimostrato grande capacità di adattamento, di integrazione e di interconnessione, grazie anche al supporto dato dalle nuove tecnologie e forme di comunicazione. La tutela dei valori quali la comprensione e l'ascolto delle necessità dell' “altro”,  possono rivelarsi utili alla non-alienazione del singolo e alla creazione di una nuova “rete” sociale non più composta solo da chi si riconosce come “simile”, ma anche da chi si presenta come “nuovo” e “diverso” e che, a tutti gli effetti, fa parte del tessuto sociale universale e della grande famiglia dell'umanità.

Nostro compito è quello di educare i bambini all'accettazione dell'individuo, e non più solo attraverso i grandi temi, ma anche tramite la cultura dell'integrazione, della generosità, della capacità di confronto e del rispetto degli altri.


Per cui il ruolo fondamentale della scuola primaria, oltre a quello nozionistico, è quanto mai complicato: deve poter fornire i giusti strumenti a quelli che saranno gli adulti di domani affinché sappiano porsi nei confronti delle nuove sfumature sociali, non solo attraverso la capacità di analisi, ma anche tramite la facoltà di rapportarsi direttamente.

I piccoli semi che i maestri e le maestre di oggi pianteranno, un giorno fioriranno nelle menti degli alunni che, diventati grandi, cresceranno come esseri senzienti, cittadini del mondo, persone dotate di giudizio critico e capaci di rispettare sé stessi e gli altri. O, perlomeno, questo è l'augurio che io faccio a tutti loro. I bambini avranno il dovere di sviluppare un marcato senso di responsabilità universale e la scuola primaria sarà il primo posto nel quale cominciare questo percorso.

Tempi che cambiano (e strani accadimenti)

Il filo che ci unisce

La bisnonna, all'occorrenza, sapeva usare lo schioppo. Lavorava nei campi, toglieva i topi morti dalle trappole a mani nude senza battere ciglio, allattava anche i bambini delle altre, tanto latte aveva. Per non parlare dei suoi casoncei, la pasta ripiena più buona dell'universo, fatta con le uova fresche delle sue galline.

La bisnonna non è andata a scuola perché ai tempi c'era troppo da lavorare, le famiglie erano numerose e le bambine rappresentavano una risorsa preziosa all'interno dell'azienda famigliare. Abitava in provincia di Brescia, in un piccolo paesino dove non si vedevano altro che stalle e risaie. Si chiamava Angela ed era la nonna di mio padre.


All'epoca non erano in molti a saper leggere e scrivere, specie nei paesi di provincia dove l'importante era saper firmare i documenti e neanche poi più di tanto. Al massimo si metteva una bella croce. Era molto più importante aiutare i vitellini a nascere durante un parto difficile, conoscere il *1) maggese e i cicli lunari, mondare bene il riso in risaia e cucinare pasti sostanziosi per gli uomini che rincasavano con una fame da lupi. E, ovviamente, occuparsi di nugoli di bambini che presto sarebbero diventati soldati o spose. Una vita rude e semplice dove la luce era data dal sole o dalle lampade a petrolio, il caldo d'inverno era quello del focolare e d'estate il cielo era pieno di lucciole.

La nonna ricamava a mano il suo corredo, confezionava vestiti, macellava gli animali del pollaio quando era ora, zappava la terra e faceva di conto. Oltre a cucinare crostate incredibili e lucidare a mano i pavimenti in marmo con la cera Sutter. La sera un brodino e via, a dormire presto perché il giorno dopo si apriva la bottega. La nonna si chiamava Faustina ed era la mia nonna materna.

Grande lavoratrice, da bambina abitava in una cascina nella frazione agricola Le Fornaci a Oleggio. Quando era giovane ha vissuto la seconda guerra mondiale aspettando come tutti notizie dal fronte; è così che ha saputo di aver perso il suo primo fidanzato, morto in guerra come molti altri giovani soldati. Poi si è sposata con mio nonno, un giovane garzone di macelleria. La loro vita è girata tutta attorno alla loro macelleria bovina, di via Canonico Diana a Galliate. Avevano anche un bell'orto dietro casa, dove il nonno Nino coltivava verdure e peonie profumate e gli alberi da frutto producevano succose pesche e dolci ciliegie. Ricordo ancora il ronzio gagliardo delle api.

La nonna ha studiato fino alla quinta elementare ed era molto brava in matematica, cosa che le è servita per più di trent'anni alla cassa in negozio. Ma non si è mai interessata di politica, attualità o letteratura. L'unica lettura di casa dei nonni è stato per decenni l'Eco di Galliate. In un'epoca dove già molte donne proseguivano gli studi, guidavano, insegnavano, lei non ha mai avuto altre aspirazioni se non quelle di giovare all'attività di famiglia.

La mamma, invece, ha studiato fino al diploma di maestra d'asilo. Le scuole medie le ha frequentate a Novara, all'Istituto Immacolata dove restava in collegio per tutta la settimana, compresi i fine settimana.

*1) maggese: o pratica del maggese; consiste nella messa a riposo di un terreno, per la precisione di un campo agricolo, che consente la coltivazione ed il riposo ciclico

I nonni lavoravano anche dodici ore al giorno in negozio e non potevano occuparsi di lei. Mentre il diploma l'ha conseguito presso la Scuola Magistrale, anche se non ha mai (o in rare occasioni lavorative) usufruito del suo titolo di studi.

La mamma faceva la segretaria d'azienda e lavorava in ufficio. Fumava tante sigarette e si alzava mezz'ora prima per truccarsi. (Quello lo fa ancora oggi, ha solo ridotto le Muratti). Casa perfetta ma cibo della rosticceria e forno a microonde. Non ha mai avuto feeling con la cucina o con gli animali, né le è mai piaciuto stare a contatto con la natura, fare sport o escursioni.

I bottoni sui pantaloni li sapeva cucire ma niente di più. In compenso ha sempre avuto in tasca la patente, il bancomat e la carta di credito ed un'attrazione per i bei vestiti e gli accessori eccentrici. Abbiamo provato a regalarle uno smartphone: garantisce che ci sta provando ad usarlo ma senza impegnarsi a fondo perché questo tipo di approccio esula dal suo modo di intendere il telefono; ovviamente ha ancora un cellulare ibrido, a metà fra quelli con la tastiera e quelli col display touch. Nonché l'irrinunciabile telefono fisso. Ascolta Radio Italia Solo Musica Italiana la mattina e guarda la De Filippi il sabato sera. Metodica, non le piace che le si tocchino i capelli, (che porta cortissimi), non le piace leggere, mentre le piace molto vivere seguendo ritmi scanditi, facendo particolare attenzione alla pulizia della casa. Fare le faccende domestiche è la sua vera passione: guardare una casa in ordine, pulita e rassettata aiuta il suo spirito a mantenersi sereno. E' una persona che tiene all'amicizia e che della schietta sincerità ha saputo fare virtù anche se mi insegna a non esporre forzatamente le mie idee e i miei pensieri qualora questi possano ferire la sensibilità altrui o essere incompresi. La mamma non ha portato avanti nessuna tradizione di famiglia e ciononostante non se ne è mai fatta una colpa, anche perché vive la sua vita secondo le sue regole, regole che lei stessa utilizza come binari per navigare su di un'unica rotta.

Ha la scorza dura ma il cuore tenero.

Con la nascita di mia figlia ha riscoperto una tenerezza che non provava da tempo.

Io? Io bhé, potete immaginarlo. Sono come voi. Ho studiato fino a trent'anni. Lavori vari ed eventuali, anche se ciò che più amo fare e vorrei che mi desse da mangiare è dipingere quadri. Sono andata a viver da sola presto ma sempre sotto l'ala di mammà. Ho prole e marito ma questo non fa di me una signora nel senso stretto del termine, solo una moglie e una mamma; e, devo candidamente ammettere, che mi ci trovo molto bene in questi “panni”, io che mai avrei pensato di volermi dedicare principalmente alla famiglia. Cucino meglio di mia madre e non faccio delle questioni infinite se c'è un po' di disordine in casa. In compenso, quando posso leggo, scrivo, dipingo e ascolto musica. Mi ingozzo di tecnologia e ci perdo molto del mio prezioso tempo; tempo che, ad esser sincera, potrei dedicare a cose ben più sane come a fare una passeggiata o ad abbracciare un albero, ad esempio. Cani e gatti li conosco, galline e conigli un po' meno. E di sicuro non riuscirei a torcergli un pelo. (O una penna).

Chissà come sarà il paragrafo di mia figlia?

La mia scuola


La mia scuola è stato un grande viaggio. Non ho imparato soltanto a leggere, scrivere e contare ma ho imparato a ragionare, cosa altrettanto importante. Ho conosciuto persone fantastiche, indelebili nella mia memoria, come certi pomeriggi sonnolenti dove lo sguardo si posava sul pulviscolo in contro luce e i pensieri correvano lontano, fuori dalla finestra, e facevo fatica a rimanere concentrata. Ho capito che il corpo umano è una “macchina” perfetta ma che va mantenuto attivo e in salute per stare bene; che la mente ha degli ingranaggi che vanno sempre oleati affinché funzionino a dovere. Che i libri, gli articoli, i video e la cultura sono il carburante di questa “macchina da corsa”. Che bisogna coltivare le passioni, quelle che fanno battere forte il cuore, la creatività e l'immaginazione perché esse sono una grande risorsa per l'essere umano ed è di fondamentale importanza aprirsi e non chiudersi. E donare, incondizionatamente, amore.

Il ponte immaginario che congiunge la mia bisnonna a mia figlia è un ponte corto se si pensa a quanti pochi anni sono trascorsi fra la società rurale e industriale e la nuova società delle interconnessioni tecnologiche, dal tempo delle biciclette a quello delle automobili elettriche, dal tempo delle prime casse di risparmio all'home banking, dal tempo delle merende sull'aia al tempo della spesa on line. Però è anche un tempo lunghissimo per i grandi cambiamenti che sono intercorsi. L'innalzamento dei tempi di scolarizzazione, i vari scossoni dell'economia, la globalizzazione, la comprensione di più lingue e la possibilità che tutti abbiamo di viaggiare e vedere il mondo hanno davvero reso questo intervallo temporale uno spazio vasto e di difficile comprensione per le nuove generazioni. Per i nativi tecnologici è possibile comprendere istintivamente le tecnologie ma non la manualità, il mestiere di fare le cose con le proprie mani. Hanno bisogno di chiavi di lettura per “leggere” correttamente il passato e volgere il loro sguardo serenamente al futuro.

Credo appartengano a mia figlia molte di quelle cose che mia nonna neanche poteva immaginare, ma mi chiedo se queste cose, un domani, la renderanno felice.  Ella vivrà una nuova era che vorrei non fosse improntata solo sui consumi e sulla velocità, ma anche sul ricordo delle tradizioni, perché uno dei grandi insegnamenti che la sapienza dei nonni ci ha lasciato è proprio quello del “saper aspettare”, ed è difficile insegnare ai nostri bambini il valore dell'attesa in un mondo dove tutto è rapido e di facile accesso. Le cose migliori hanno il passo lento, dicevano i nostri nonni. Vorrei che godesse di tutte queste novità meravigliose, in mezzo alle quali è venuta al mondo, senza soffrirne le controindicazioni! E mi piacerebbe pensare che la scuola del futuro sia in grado di aiutarla a crescere bene nel pieno rispetto dello spirito del suo tempo, parte integrante di una nuova collettività pur rispettando quei valori che prescindono dal consumismo. Mi auguro che ricordi il passato della nostra famiglia e la storia della sua nazione, ma che viva con slancio il presente senza zone d'ombra. Mi auguro anche che provi il gusto di fare domande e che i suoi maestri e le sue maestre riescano, con l'intelligenza che li contraddistingue, a darle buone risposte, lasciando però qualche spazietto vuoto per stimolare il suo ragionamento.

L'incendio

Avevo molti quaderni di quando andavo a scuola, quaderni di tutte le materie, i famosi Pigna Cento che si usavano una volta. Ne andavo fiera e avevo ragione di esserlo perché ero una brava scolara. Questi “quadernoni” erano correlati da splendidi disegni che ritraevano me e i miei genitori e tante altre situazioni vissute o immaginate. Temi ricchi di considerazioni e particolari, degni di una vera osservatrice amante dei dettagli. Purtroppo sono andati tutti bruciati in un incendio doloso che ha distrutto, non solo mobilio e oggetti, ma anche un enorme pezzo della mia vita. Una notte, alcuni individui rimasti ignoti, hanno devastato la casetta di campagna che all'epoca apparteneva ancora alla mia famiglia, dal giorno in cui mio nonno Nino la ereditò da suo zio Pietro. La notte dell'incendio un filo si è spezzato e anche qualcosa dentro di me. Ho provato molti sentimenti contrastanti in quella circostanza. Mi hanno pervasa sconquassandomi dalla testa ai piedi. Prima lo sconforto e rabbia e il senso di impotenza. Infine la frustrazione e il dolore, sentimento che noi occidentali cerchiamo con tutte le nostre forze di scansare ma che, in effetti, è una sorta di benedizione perché è proprio attraverso la sofferenza che si giunge ad una sorta di illuminazione. Anche grazie a quello (e a molti altri dolori) sono diventata la persona che sono oggi. Infondo, credo di aver perso solo le cose materiali in quell'incendio. Per molti anni ho avuto la certezza di aver perso per sempre la prova tangibile dalla mia infanzia, dei migliori anni di scuola, dei miei progressi di bambina, eppure oggi so per certo che nulla è andato perduto. Ha solo cambiato forma.

Ora sta tutto alla mia memoria il non disperdere i bei ricordi nell'oblio e, si sa, la memoria è fallace, talvolta ci trae in inganno, deforma le cose a nostro piacimento. Però è anche vero che sono i sentimenti a guidarla. Perciò è mio preciso compito quello di mantenere la mia brillante stella polare accesa, il faro della memoria che illumina anche la notte più buia. Dentro di me ci sono tutti i quaderni, i libri di scuola, i miei amati romanzi (che  fortunatamente ho potuto ricomprare), le matite colorate e molto, ma molto altro! Ci sono i volti dei miei compagni bambini, gli alberi in fiore nel cortile durante la ricreazione, le annuali foto di classe nell'esatto momento in cui sono state scattate, la maestra che, con le sue parole evocative, ci raccontava il mondo e le immagini che si formavano nella mia testa, gli esperimenti di scienze, il profumo delle tempere e la loro consistenza, la pioggia che batteva sui vetri e i colori variegati degli ombrelli. L'odore dolce e salino della carta. Il sorriso di mio nonno Nino che, all'uscita, mi aspettava con il sacchetto della merenda. E le corse a perdifiato con la mia amica Donatella, a zig zag tra un trifoglio e un altro. E che gioia quando si trovava un quadrifoglio! O quando una coccinella si posava sul dorso di una mano. Pensavamo portasse fortuna. E, in effetti, a ripensarci bene di fortuna ce ne ha portata. E anche molta. Perché, anche se la vita spesso toglie, è anche capace di dare.


Carolina Gianotti

IO E LA SCUOLA… PRIMA ALLIEVA POI MAESTRA

“Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia”
Daniel Pennac

Ho “coltivato” la passione per la scuola fin dalle superiori, avendo scelto proprio per questo motivo il Liceo Socio-Psico-Pedagogico, seguito poi dalla laurea in Scienze della Formazione Primaria. In realtà però questa passione ha iniziato a svilupparsi in me già dall’infanzia. Ricordo quanto mi piacesse giocare con le amiche “alle maestre” e come osservavo mia mamma, insegnante di scuola primaria, prepararsi il lavoro.
Se penso al tipo di insegnanti che ho avuto penso subito alla “mia” scuola elementare, che per me ha rappresentato l’ingresso nel mondo scolastico, non avendo frequentato la scuola materna. In particolare penso ad una delle mie maestre. Ed è la stessa persona a cui ho sempre pensato, quando, durante le lezioni all’università o agli incontri di tirocinio, si parlava del/la bravo/a insegnante come una persona in grado di equilibrare l’attenzione all’aspetto didattico e alla vita extra-scolastica degli allievi e delle loro famiglie. Il suo insegnamento non riguardava solo nozioni di storia o geografia; era la persona a cui tutti, bambini o genitori, si riferivano per qualsiasi cosa, tanto che a volte io lo faccio ancora adesso, dopo oltre 20 anni.
Ricordo poi, facendo un salto in avanti di qualche anno, alcune figure di riferimento alle superiori, in particolare le professoresse di educazione fisica e di latino. Due stili molto diversi, ma entrambi significativi per la mia formazione, tanto quella personale quanto quella professionale.
E poi penso a casa, agli esempi, alla guida, ai consigli e ai confronti costanti con alcune care amiche maestre e, soprattutto, con mia mamma e mia cugina, maestre e colleghe in famiglia.
Ma dopo aver brevemente citato le figure di insegnante che più hanno influenzato il mio vivere a scuola, penso: che tipo insegnante penso di essere? Che tipo di insegnante voglio essere?
Ora, potrebbe sembrare toppo facile dire: cerco di essere un’insegnante che sappia essere competente per quanto riguarda il processo di insegnamento-apprendimento ma sempre attenta e disponibile riguardo a quello sociale e relazionale. In fondo però io credo proprio che questi due aspetti non si possano dividere, questo è ciò che io vivo come relazione educativa. Insegnare, secondo me, implica automaticamente l’instaurazione di una “relazione” per poter generare un apprendimento che sia efficace; altrimenti è una semplice trasmissione di nozioni per la quale basterebbero i libri e persone esperte negli argomenti da proporre. Ciò in cui mi impegno ogni giorno è cercare di organizzare e animare le situazioni di apprendimento che propongo ai miei bambini, progettando attività e percorsi accattivanti, che rispondano ai loro bisogni e alle loro esigenze e ne stimolino curiosità e interesse. Così spero di rende attivo il processo di apprendimento, coinvolgendo i bambini in ogni sua fase, perché diventi significativo e duraturo.
                                                                                                               Roberta Bergamo

Contributo di Giovanna Cosentino

Buongiorno, sono Giovanna.

L'anno in corso é il mio secondo da maestra di scuola dell'infanzia. Arrivo da 16 anni di lavoro come educatrice professionale in servizi rivolti a minori, adulti e famiglie. Vorrei condividere alcune riflessioni che ho fatto durante lo scorso anno per il percorso "dell'anno di prova", sono stralci del bilancio delle competenze iniziale e finale su alcune delle areedi riflessione proposte. Premetto che è stato un anno molto intenso: oltre ad essere alla mia prima esperienza da maestra, ho lavorato in una scuola di neo immissione statale, con le conseguenti difficoltà organizzative, in una sezione molto densa di differenze e complessità, con l'avvicendamento di varie supplenti, mancando la collega titolare. Nelle mie riflessioni emerge un forte vissuto di solitudine e la stridente differenza tra le modalità operative sperimentate da educatore e quanto ho incontrato nella scuola.

Quest'anno l'ambiente è più strutturato e lavoro con minore difficoltà, ma vorrei riuscire a mantenere e incentivare la mia abitudine alla riflessione sul lavoro nella sua complessità: la relazione con i bambini, le scelte educative e didattiche, i rapporti con le colleghe, con le famiglie e il territorio, il confronto e l'arricchimento reciproco: gli ingredienoi del nostro faticoso, ma costantemente arricchente, lavoro.

Lavorare in gruppo tra insegnanti

Iniziale:

Da sempre il mio lavoro (da educatore) si caratterizza per un’operatività spesso individualizzata a fronte di spazi di riflessione e confronto collettivo, anche attraverso uno scambio con figure professionali diverse e complementari. Questa mia prima esperienza di insegnamento mi sta facendo sentire la mancanza della dignità data dai contesti di lavoro educativi extrascolastici agli spazi di riflessione: a scuola sono sovente ridotti a scambi rapidi e occasionali, spesso maggiormente centrati sugli aspetti operativi a scapito di quelli pedagogici. Ritengo di avere buone capacità di lavoro in equipe: mi piace confrontarmi, cercare di integrare sguardi diversi, ascoltare le osservazioni e le ipotesi operative di altre colleghe, individuare e perseguire obiettivi e modalità condivise, partecipare e progettazioni corali; ritengo inoltre di avere buone capacità nel sollecitare, fare sintesi e organizzare l’operatività che ne segue. Non mi sento pronta a proporre strategie utili all’intero contesto scolastico, non avendo sufficienti esperienze in merito, ma sento di stare partecipando attivamente alla costruzione di una gestione “in progress” della quotidianità con uno sguardo proiettato nel futuro. Sto cercando di mantenere alcune delle modalità operative per me preziose nel lavoro educativo: il confronto con altre figure professionali interne ed esterne alla scuola, il confronto e dialogo tra colleghi, la co-progettazione e la reciproca valutazione in merito all’andamento dei vari interventi. Purtroppo non sto avendo la possibilità di farlo con la collega di sezione, poco presente per problemi di salute, che ritengo essere la figura di riferimento e confronto maggiormente assiduo e significativo per la costruzione di un contesto di crescita intenzionalmente fondato. Sto cercando quindi con l’insegnante di sostegno della sezione e nel gruppo allargato delle colleghe i riscontri e i confronti di cui sento il bisogno per calibrare e orientare costantemente il mio intervento.

Finale:

Ritengo di avere buone capacità di lavoro in equipe sia con i colleghi che con altre figure professionali: la capacità di leggere le situazioni, di ideare, di esprimere il mio punto di vista e portarlo avanti, ma anche quella di integrare sguardi, idee e ipotesi altrui nel percorso pensato. L'esperienza di quest'anno ha fatto emergere le criticità legate al tema del confronto e del dialogo tra i colleghi: sul piano operativo esso avviene spesso in maniera frettolosa, ma credo che manchino momenti adeguati per un confronto sui principi educativi fondanti l'agire, che ritengo andrebbero condotti grazie a un supporto esterno o almeno alla figura di un mediatore. Credo che sia possibile procedere alla progettazione e alla programmazione delle attività solo dopo aver raggiunto un accordo sui presupposti pedagogici che consentano di codificare un'idea di bambino e di crescita da parte di tutti gli attori in gioco. Credo debba aumentare l'abitudine a trattare queste tematiche, a discutere, a fare e accettare critiche costruttive, funzionali a trovare elementi di convergenza: basi da cui partire per scegliere contenuti e modalità operative. Un confronto costante serve a orientare il proprio agire, un feedback sullo stesso, consente di attivare gli opportuni aggiustamenti. Si potrebbe fare a livello di sezione, di intersezione e di plesso, in base all'organizzazione presente e alle modalità che si scelgono per portare avanti una programmazione condivisa. Questi aspetti sono stati affrontati in maniera altrettanto frettolosa di quelli operativi, affaticando il lavoro e ritrovandosi a ritrattare le medesime problematiche più volte. I momenti di equipe sono vissuti come momenti di ascolto, non di riflessione, esposizione del proprio pensiero o delle proprie difficoltà, in cui passano soprattutto contenuti e informazioni pratiche e si prendono decisioni sul piano operativo. Il dialogo e il confronto vengono rimandati a scambi occasionali e casuali, rapidi e spesso poco efficaci.

Partecipare alla gestione della scuola

Iniziale:

Attualmente la mia priorità professionale è far funzionare in maniera sufficientemente adeguata il gruppo classe nella quotidianità e supportare i bambini nella loro crescita giorno dopo giorno. Sono consapevole che questo non può prescindere dalla collocazione dello stesso in un’organizzazione più ampia, anch’essa in fase di strutturazione in quanto di recente acquisizione statale, di cui doversi prendere cura al fine di sostenerne e orientarne lo sviluppo. A tale scopo mi sto impegnando nel lavoro d’equipe con le altre colleghe della scuola dell’infanzia, nell’immaginare e porre le basi per degli sviluppi futuri, nel costruire e/o consolidare alleanze con le risorse scolastiche, del territorio e con le famiglie. Sto inoltre collaborando alla vita dell’istituto comprensivo, facendo parte di una delle commissioni di lavoro, ma ritengo di dover approfondire maggiormente le dinamiche e i funzionamenti sui vari livelli che ne caratterizzano la vita organizzativa. Mi piacerebbe partecipare in maggior misura ai processi di autovalutazione e agli interventi di miglioramento dell’organizzazione scolastica, continuerò a informarmi e a interagire con i diversi livelli organizzativi per poter ampliare le mie conoscenze in merito, ma ritengo che ogni cosa vada fatta nel momento in cui si hanno capacità ed energie da dedicarvi, che, attualmente, sono focalizzate sulla sperimentazione e la sedimentazione di molti altri aspetti, maggiormente legati all’operatività di sezione e di ordine di scuola.

Finale:

Credo molto nel lavoro di rete e nella necessità di integrare competenze e sguardi per poter leggere le complesse realtà che si creano lavorando con le persone. Inoltre, spinta dal senso di solitudine e disorientamento, provato soprattutto nella prima parte dell'anno scolastico, ho cercato diversi interlocutori, interni ed esterni all'istituto, con i quali confrontarmi e collaborare, così come facevo nel mio precedente lavoro. Ho attivato rapporti con i referenti scolastici del disagio, con la psicologa d'istituto, con i servizi sociali e la neuropsichiatria, con risorse territoriali funzionali alla formazione e al supporto dell'insegnante e delle famiglie. Sul piano più operativo ho attivato una collaborazione con la Biblioteca comunale, concordando delle letture e dei laboratori inerenti al tema del rispetto e del lavorare insieme; e la partecipazione a un progetto rivolto a tutte le scuole che ci ha dato l'opportunità di partecipare a una mostra aperta al pubblico. Tutti questi elementi sono stati per me un importante contenitore di senso e uno specchio in cui leggere i risultati del mio agire quotidiano. Ho partecipato anche a una commissione dell'istituto comprensivo che mi ha dato modo di conoscere e vedere dinamiche più complesse, che riguardano l'intera organizzazione scolastica, a cui ogni insegnante dovrebbe contribuire in maniera attiva. Ritengo che una continuità di servizio nella stessa scuola possa sollecitare una maggiore spinta alla partecipazione e all'investimento nel sistema in senso più ampio.

Informare e coinvolgere i genitori

Iniziale:

Ritengo di avere buone capacità di approccio alle famiglie: cerco costantemente un dialogo e un confronto funzionali alla costruzione di un rapporto di fiducia e all’individuazione di obiettivi e modalità educative condivise. Credo di avere buone capacità di accoglienza delle differenti situazioni che incontro, di analisi delle stesse e di differenziazione negli approcci sulla base delle diverse caratteristiche ed esigenze che emergono via via. Cerco un rispecchiamento costante dei loro vissuti, di quanto i bambini portano a casa dell’esperienza quotidiana a scuola, per poterci riflettere e riorientare modalità e contenuti di intervento.  Sto cercando di rendere più consapevoli e partecipi i genitori anche delle difficoltà operative e dei vincoli che la scuola si trova ad affrontare (risorse economiche e umane limitate), cercandone la condivisione e la collaborazione, ciascuno per quanto e ciò che può. Ritengo di dover migliorare la mia capacità di esplicitare obiettivi, strategie d’intervento e modalità di verifica sull’intero gruppo classe, aspetto che so di saper gestire meglio a livello individuale. Mi piacerebbe acquisire maggiore sicurezza nel rendere comunicabili e spendibili le esperienze che ho vissuto, che vivo e che via via imparo a padroneggiare, per restituirle al gruppo dei genitori e alle famiglie come spunti di riflessione sul proprio agire educativo; mi piacerebbe attivare momenti di confronto funzionali a sostenerli nel loro faticoso compito e anche nel diventare, reciprocamente, potenziale risorsa.

Finale:

Ritengo di avere buone capacità di accoglienza e ascolto delle famiglie, so differenziare le risposte in base alle richieste che vengono poste e alle caratteristiche delle persone con cui mi trovo ad interloquire. In questo mio primo anno il lavoro si è andato strutturando man mano che prendevo padronanza delle situazione, quindi ho cercato di comunicare alle famiglie quanto avveniva in classe e di accogliere quanto loro potevano osservare indirettamente attraverso i loro bambini. Credo di dover continuare a lavorare sulla comunicazione e la condivisione del lavoro in classe, delle motivazioni per cui si compiono determinate scelte pedagogiche-educative, sui contenuti proposti e sulle modalità con le quali si intende affrontarli. Ho cercato di costruire un'alleanza educativa con tutte le famiglie riuscendovi a diversi livelli con la maggior parte delle stesse. Ho cercato di dare e raccogliere indicazioni in merito allo star bene dei loro figli, di collaborare con alcuni familiari per sbloccare situazioni critiche, di condividere successi e fatiche. Anche sul piano concreto ho cercato la disponibilità per riparare o costruire materiali da utilizzare in classe (armadietti, bacheche, cucina, materiali didattici) avendo sempre un buon riscontro. Le colleghe hanno spesso criticato il mio approccio a bambini e famiglie come troppo accogliente e disponibile, troppo vicino, questo mi ha fatto riflettere sulla necessità di ragionare maggiormente su questo aspetto, di calibrare meglio accoglienza e strutturazione, disponibilità e limite, ascolto e indicazioni da fornire nel mio nuovo ruolo.

Grazie per l'opportunità di sentirmi parte di un movimento che pensa! Manteniamo un contatto!

                                                                                                       Giovanna Cosentino